Volontariato

L’addio a uno scrittore, milanese non per etichetta. Pontiggia, una parola diversa

Nell’ultimo suo libro aveva raccontato la propria vita a fianco di un figlio disabile. Dopo anni di silenzio pieno di pudore, aveva scelto la rivelazione di sé.

di Franco Bomprezzi

“E’ stato come se ci fossimo incontrati per sempre, per un attimo”: è l?ultima, struggente frase di Nati due volte. Ora Giuseppe Pontiggia non c?è più. Restano la memoria e i suoi libri. Vive suo figlio, assieme alla mamma, protagonista discreta e tenace di una vita vissuta forse anche più di due volte. Il ?dopo di noi?, del quale tanto si parla a proposito di grave disabilità, è qui davanti agli occhi, ma passa in secondo piano, perché ciò che brucia, oggi, è la perdita, secca, repentina, di un punto di riferimento vero, uno dei pochi. Avevo scoperto la sua scrittura, disadorna e colta al tempo stesso, nel 1993, dieci anni fa, quando Pontiggia pubblicò un?opera di narrativa davvero inusuale: Vite di uomini non illustri. Ma questo suo nuovo libro era qualcosa di speciale. Lì per lì non colsi nel profondo che cosa mi colpiva così emotivamente. In quegli anni ero giornalista a Padova, e in particolare ero responsabile delle pagine culturali del Mattino. Un incarico che a volte rimpiango, perché la cultura serve, ma occorre frequentarla, assimilarla tutti i giorni, con curiosità e varietà di interessi. Notai, allora, questa scrittura apparentemente distaccata, precisa, minuziosa, didascalica, rigorosa. Notai anche come le storie scelte (inventate?) dallo scrittore testimoniassero in modo a tratti impietoso la difficoltà del vivere quotidiano, e le chimere di false ambizioni, ovvero la distanza che corre fra le aspettative personali e un destino spesso assai mediocre, avaro, deludente. Pontiggia ci consegnava un messaggio nella bottiglia dei suoi pensieri: le nostre esistenze vanno vissute cogliendone il senso interiore, la dignità individuale, l?unicità della persona. Per uno strano gioco del destino, ho avuto l?onore e la fortuna di trovarmi, una sera a Milano, il 4 dicembre del 99, accanto a Giuseppe Pontiggia. Per merito di Edoardo Cernuschi, anch?egli da poco scomparso, e allora presidente della Ledha, la storica lega milanese che tutela i diritti delle persone disabili, a partire dalla cultura. Ci volle mettere insieme, Pontiggia e me, per parlare di letteratura e diversità, e scelse di invitare anche Ettore Mo, un grande ?piccolo? giornalista e scrittore. A leggere pagine di Nati due volte, del mio breve romanzo La contea dei ruotanti e di Sporche guerre ci pensò la bravissima Lella Costa. In quella magica serata, le mie fortune furono davvero numerose: nacque un?amicizia vera con Lella, e potei comprendere, in rapidi momenti di conversazione fianco a fianco, che cosa distingueva Pontiggia da tanti altri utilizzatori della penna, o della macchina da scrivere. C?era infatti, nella sua semplicità, nella ruvida parsimonia delle parole, nella semplicità di un ragionamento su questioni assai profonde e delicate, un autentico rispetto per gli altri, a cominciare da suo figlio, Paolo nel libro che giustamente ha conseguito un enorme successo di pubblico e di critica. “Provo a pensare ?Io sono Paolo?, ma ho una sensazione di terrore e di vertigine, io non ho il suo passato né il suo futuro, non posso immaginare quello che lui immagina, né condividere niente di ciò che vive. Non possiamo mai, come si dice con una espressione temeraria e orrida, entrare nel cervello di un altro” (da Nati due volte, pag. 202). Ora, ripensando a quei momenti, e alla sua splendida dedica, che conservo come un impegno prezioso e terribilmente impegnativo (“A Franco, perché continui a scrivere e a darci cose così vere e così belle”), ho trovato una chiave di lettura che lega quelle vite ?non illustri? a questo ultimo ?sacrificio? di scrittore: a un certo punto della sua esistenza, forse consapevole di un termine temporale che si stava avvicinando, oppure solo profeticamente conscio del proprio ?dovere? di intellettuale, Pontiggia ha avuto il coraggio di raccontare, sotto la specie del romanzo, la storia più vera e intima della propria personale esistenza, disvelando in un ordito leggero, ironico e coinvolgente, il percorso di formazione, che sempre accompagna un genitore che si imbatte improvvisamente, nel corso dell?esistenza, con un brusco salto del destino familiare, ossia in un figlio che per una mancanza di ossigeno durante il parto porterà sempre con sé le conseguenze fisiche, la sua diversità. è questo il massimo dono che si può concedere al lettore: raccontare se stessi. Provo a immaginare il dilemma interiore, la paura di apparire, per la prima volta, meno rigoroso, meno ascetico, nella sua professione di scrittura fuori dal tempo, fuori dalle mode. Pontiggia da vero scrittore, era consapevole che la parola ha bisogno del silenzio e della solitudine. Eppure, per una volta, mirabilmente, ha scelto la strada della rivelazione di sé. Anche in questo caso senza indulgenza, raccontando soprattutto i propri limiti di padre, e i meriti della moglie, e del figlio, che diventa a sua volta ?maestro? di vita. Il pubblico lo ha ripagato, con affetto commosso. Per molti è stata la scoperta, abbagliante, di un mondo sommerso, pieno di tabù, di sensi di colpa, di pudori. Quel mondo che noi cerchiamo di raccontare nella sua quotidiana battaglia per l?affermazione dei diritti di cittadinanza, per la dignità delle persone e delle famiglie. Mi sentivo fino a ieri più sicuro, in questo percorso. Ora sono più solo. E andrò a rileggermi le sue pagine più belle. Ricordando un sorriso affettuoso e sincero, e una stretta di mano ?milanese?, capace di risparmiare, in un gesto schietto e antico, troppe parole inutili.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA